Vangelo della domenica (2-03-2014)

8a DOM. DEL TEMPO ORDINARIO:  IL DIRE E IL FARE

Il tema delle due vie è antico quanto la sacra Scrittura. L’esperienza del popolo di Israele ne sta all’origine: Israele, infatti, è stato chiamato costantemente a scegliere tra la via che conduce alla mèta e quella che conduce allo sbandamento e all’idolatria. Il termine “via” esprime l’esperienza del popolo eletto: traviamento, pietra d’inciampo, conversione, conversione o ritorno alla strada giusta, guida che indica la via.
Il tema delle due vie si ritrova nel nuovo Testamento, più spiritualizzato, ma non meno esigente. Il cristiano deve scegliere tra la “via stretta” che coincide con il piano di Dio e la “via larga” che non si preoccupa di Dio, tra Dio e Mammona, tra lo Spirito e la carne, tra la vita e la morte, tra la luce e le tenebre.
I primi cristiani, indicando il Cristo e la Chiesa come “via”, manifestavano la loro volontà di affidarsi alla guida di Gesù, alle indicazioni del vangelo e alla comunità. Il vangelo, a conclusione del discorso della montagna, esprime in altra forma il tema delle due vie, dei due atteggiamenti di fronte alla parola di Dio. Esso trova la sua unità nella parola “fare”, “mettere in pratica”. Bisogna “fare” la volontà del Padre che è nei cieli, bisogna “mettere in pratica” le parole ascoltate. Anche la parabola delle due case costruite sulla roccia o sulla sabbia verte sull’opposizione fra “ascoltare” soltanto e “mettere in pratica”. Non c’è religione cristiana senza una scelta concreta (la via), e non c’è scelta concreta senza impegno attivo (fare e non parlare soltanto). Quanto numerosi, anche nelle nostre comunità, sono gli abili parlatori, i criticoni e i chiacchieroni… e quanto pochi i cristiani impegnati concretamente nei problemi, pronti a pagare di persona!
La verifica non avviene sul piano delle parole e delle buone intenzioni, ma sull’azione concreta. I fatti sono una pubblica testimonianza. Le azioni sono una “prova” delle nostre parole e delle nostre convinzioni. Ma anche le azioni e le opere possono illudere e diventare occasione di compiacenza farisaica, di sicurezza, di ostentazione. Gesù mette sull’avviso sia coloro che si fermano alle parole e alla sterile invocazione del nome di Dio, sia coloro che confidano nelle opere, che pensano di essere salvati dalle “pratiche” e dalla osservanza vuota delle tradizioni e della legge.
La nostra fede non può essere ridotta al “dire”, ad una preghiera o a celebrazioni staccate dalla vita; ma non coincide neppure con il “fare”. Questo va ricordato specialmente oggi, quando tutto nella società ci porta a misurare i valori, gli avvenimenti e le persone in base al criterio dell’efficienza, della “riuscita” e del “successo”.
Umanamente parlando la vita e la missione di Gesù non si concludono col successo, ma con il più umiliante fallimento: la condanna, l’abbandono dei discepoli, la morte infamante sulla croce. E’ proprio in questo insuccesso che affonda le sue radici il mistero della salvezza e il trionfo della Pasqua.

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