Attualità (5-08-2018)

BURKINA: L’ACQUA, LE SCUOLE E L’EMIGRAZIONE

Sei litri d’acqua stanno abbondantemente in un secchio; escono dal rubinetto nel tempo in cui aspettiamo che l’acqua raggiunga la temperatura desiderata per fare la doccia; ci servono per lavare due piatti e qualche bicchiere. L’acqua è per noi scontata, come la luce in una stanza quando premiamo l’interruttore. Fuori dall’Italia, invece, sei litri possono essere il quantitativo giornaliero a disposizione di una persona. Secondo l’ONU 800 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e circa 2 miliardi e mezzo non hanno l’acqua per i servizi igienici.
In Burkina Faso, a 3.500 km da noi, una tanica si riempie dopo aver pompato 30 o 40 volte da un pozzo che pesca l’acqua a 40 o 50 metri sotto terra. Spetta alle donne, ogni giorno, procurarsi l’acqua per cucinare e garantire alla famiglia quel minimo di pulizia e igiene. Mentre attingono al pozzo sono circondate dai figli un po’ più grandicelli che fanno festa e trascinano con carretti precari enormi bidoni di plastica.
Il Burkina Faso, pur essendo indipendente dal 1960, è ancora segnato dalle ferite non rimarginate dei tempi del colonialismo francese e dall’instabilità politica degli anni successivi, fino ad oggi, dovuta alla corruzione e ai legami dei governanti con le potenze straniere.
La popolazione percorre anche sette o otto km per assicurarsi un po’ d’acqua, motivo per cui occorre trovare finanziamenti per costruire pozzi e far sì che ogni villaggio abbia la possibilità di rifornirsi autonomamente. Ne va della salute e della dignità di milioni di esseri umani.
Rispetto ad altri stati della fascia equatoriale, paesaggisticamente, il Burkina non offre molto da vedere, ma si resta sempre affascinati dal carattere della gente. Il presidente Thomas Sankara, a conferma di questa caratteristica del suo popolo, aveva anteposto la sua felicità ai vincoli del PIL e del debito estero e ribattezzato l’Alto Volta, antico nome della colonia francese, in Burkina Faso, la “patria degli uomini integri.
Uomini integri, poveri, ma felici. I burkinabè sono pacifici. E, a differenza di altre nazioni africane, non esistono, in quel paese, tensioni etniche. L’unica barriera è la lingua. Ma la stretta di mano, lo sguardo intenso, un bicchiere d’acqua permettono di superarla. Tuttavia, il fatto che 5 milioni di mossì ancor oggi comunichino soltanto in morè, la lingua locale, e non in francese, dà l’idea di quanto possa essere irta la strada per l’emancipazione di un popolo dalle dittature e dal predominio straniero. Per questo è importantissimo promuovere scuole di ogni grado, dalla materna alle superiori e all’università.
I vescovi delle diocesi del Burkina si dicono “preoccupati di questa generazione che manca”. Molti giovani emigrano nei paesi vicini in cerca di lavoro che in Burkina non c’è o è pagato pochissimo. Ma, affermano i vescovi: “Sono troppi e sempre di più i giovani che, ingannati da falsi messaggi, scelgono di abbandonare il paese per cercare un futuro e una vita migliore in Europa. Fanno male prima di tutto a se stessi, perché a loro non viene presentata la verità sul viaggio, sull’attraversamento del deserto e del mare, sulle violenze che potranno subire e sulle effettive condizioni di vita che potranno trovare in Europa. E fanno male al nostro paese che perde in questo modo le forze migliori”.

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