Attualità (4-03-2018)

RILEGGERE I COMANDAMENTI

Il decalogo è così familiare che rischia di non essere ascoltato. E’ parte del percorso catechistico di ogni generazione, e spesso è trasformato in un testo morale o in un elenco di cose da fare o da evitare, buono per l’esame di coscienza. In questo modo, però si perde il suo valore relazionale.
La Torah, di cui il decalogo è una sintesi, può essere compresa solo in un contesto dialogico.
Inizia dicendo chi è Dio: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra di Egitto, dalla condizione servile”. Dio si presenta come colui che ha donato ad Israele la sua identità di popolo rendendolo libero. Le parole che seguono sono passi di un percorso di libertà: lo scopo di Dio è dunque educare Israele a vivere nella libertà e a condividere il dono della libertà. Come avviene questo cammino?
Il primo passo è la relazione con Dio. Leggendo i primi tre comandamenti corriamo il rischio di categorizzarli troppo velocemente utilizzando concetti come monoteismo, idolatria e abuso del nome di Dio. Parlando dell’auto-presentazione di Dio come “tuo Dio” perché liberatore capiamo che il rischio non è tanto quello di seguire altri dei, ma di avere un’idea altra di DIO. Il rischio è quello di trasformare il Dio vivo in un idolo manipolabile. Pensiamo ad alcune immagini di Dio che portiamo dentro di noi e talvolta annunciamo e comunichiamo: Il Dio vendicatore; il Dio della prosperità, il Dio magico; il Dio portafortuna, ecc. Quante volte veneriamo un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza chiedendo di seguirci nelle strade di una religiosità facile e scontata. Quante volte utilizziamo Dio per mantenere in vita tradizioni morte e sepolte…
L’abuso del nome di Dio: non riguarda solamente la bestemmia o la rabbia con cui ci rivolgiamo a lui nei momenti bui, quando credere è difficile… Riguarda anche una preghiera che diventa esibizione, ritualismo, chiusura e manipolazione di Dio: sono parole che abbelliscono i nostri sepolcri, ma non portano risurrezione, perché non scalfiscono l’indifferenza verso l’altro, l’unico tempio in cui Dio vuole essere conosciuto e onorato.
Il secondo passo, allora, è la relazione con il fratello. I comandamenti dal quinto al decimo affermano che l’unica modalità di dire Dio è il rispetto verso l’altro, la sua vita, gli affetti e la proprietà che gli permette di vivere con dignità.
La parola di Dio ci chiede di prestare attenzione al nostro cuore e di discernere i semi di violenza, cupidigia, avarizia, presenti in noi. Ci chiede di estirparli, prima che provochino conseguenze irreparabili come morte, adulterio e furto. Come educare la nostra coscienza a discernere i semi di tenebra che vivono in noi? Come rendere Dio il Signore della nostra esistenza?
La risposta la troviamo nei comandamenti che riguardano il sabato e la relazione con i genitori.
Il sabato (per noi la domenica) non è soltanto un giorno di riposo, ma è il giorno in cui non lavorando posso abbandonare tutto ciò che da un’identità sociale: posizione, denaro possesso. E’ il giorno in cui posso tornare ad essere semplicemente me stesso e riscoprire la radicale uguaglianza con ogni altro essere umano. E’ il giorno in cui riscopro la mia identità e la mia vocazione: collaborare con Dio per rendere il “nostro” mondo “suo” regno; per trasformare i rapporti con l’altro, con la creazione e con me stesso.
Si colloca in questo contesto il rapporto con i genitori che il quarto comandamento chiede di onorare: sono segno delle origini, perché sono collaboratori di Dio nel dono dell’esistenza.
Letti in questa luce i dieci comandamenti non sono regole morali, ma un percorso di ritorno in noi stessi, di educazione della nostra coscienza per ritrovare la nostra autentica identità in Dio. Sono un invito a collaborare con lui per trasformare il mondo nella sua casa.

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