Attualità (18-08-2013)

IL GRANDE COMPITO: PURIFICARE IL NOME DI DIO

 Dio: “Quale altra parola del linguaggio umano fu così maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente, che venne versato in suo nome, le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie che fu costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Qualche volta sentire nominare l’Altissimo col nome di “Dio” mi sembra un’imprecazione”. Questo brano, tratto da un bel racconto di M. Buber, descrive con particolare efficacia la necessità per i cristiani e le loro comunità di assolvere a quel “grande compito dell’ora presente”, di cui parlava Benedetto XVI°: “mettere di nuovo in luce la priorità di Dio nel moderno mondo secolarizzato, procedendo al discernimento di ciò che vi è di buono e giusto nella cultura moderna e di quanto nella formulazione della nostra fede appartiene al nucleo essenziale del Vangelo o è un semplice risvolto culturale da lasciar cadere, discernimento essenziale al fine di tradurre la fede cristiana nei termini e modi di pensare nel nostro tempo”. 

E’ il concetto che più volte esprime anche il Concilio e che noi, come unità pastorale, seguendo le indicazioni che vengono anche dal nostro Vescovo, stiamo cercando di sviluppare e approfondire particolarmente in questi giorni di incontro dei catechisti.
Non si tratta solo di “annunciare” il nome di Dio, ma anche di purificarlo da tutte le incrostazioni da cui è stato contaminato nel tempo.
Questa esigenza ci induce a ripensare al linguaggio con cui parliamo di Dio. Un linguaggio che non impegna solo l’annuncio e la catechesi, ma la predicazione, la celebrazione e l’intera testimonianza dei singoli credenti e delle comunità . Impegna anche i genitori che vogliono educare alla fede i loro figli ed ogni altra persona che ha compiti educativi.
Riassumo in breve alcune caratteristiche fondamentali che dovrebbe avere questo linguaggio.
Essere un linguaggio maieutico, teso a far maturare una scelta personale perché si è colta la verità di ciò che viene proposto, e quindi si aderisce per intima convinzione e non per imposizione autoritaria e acquiescenza sociologica.
Essere un linguaggi essenziale, che presenta la verità religiosa come una possibilità reale di vita, di cui fare esperienza, e non solo come una verità teoretica da conoscere e contemplare, o soltanto da “imparare”.
Essere un linguaggio dialogico, che non solo sollecita il consenso con buone presentazioni ed argomentazioni, ma provoca e dà spazio all’esposizione del punto di vista delle ragioni altrui, valorizzando quella “competenza religiosa” che va riconosciuta ad ogni persona anche in via di formazione (bambini, adolescenti, adulti che si (ri)avvicinano alla fede, magari in occasione della celebrazione del loro matrimonio o del battesimo dei loro figli.
Essere un linguaggio che privilegia le testimonianze di vita vissuta, l’immaginazione simbolica di cui è ricca la Bibbia.
Ma perché questo stile variegato di linguaggio cristiano abbia veramente più anima che lo innervi e lo renda efficace è necessario che esso sia permeato da quella “passione” per la purificazione del nome e dell’immagine di Dio, segno di un amore per Lui che ha saputo talmente penetrarne lo splendore ed essere affascinato da desiderare ardentemente di offrirlo come dono prezioso ai fratelli.
In definitiva, il linguaggio cristiano non può che essere il linguaggio testimoniale dell’amore, per Dio e per i fratelli.

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